Da “Clara” – Quadro I: “Ali” [3 parte] – Chiara Prezzavento

[…]

WELLMAN – Sì? Lo spero bene. Dick l’ho preso per due motivi: uno, sa pilotare un aereo, e due, mi sembra un gran bel figliolo. Però, Clara, parlando di questo…

 

CLARA – Vuoi il parere di una signora?

 

WELLMAN – Tesoro, se volessi il parere di una signora, tu sei l’ultima a cui chiederei.

 

CLARA (ride, per niente offesa, e gli dà una botta su una spalla) – BÈ, che razza di… Signore sottomano non ne ho, ma sta’ a vedere. – (chiama) – Dotty!

 

DOTTY (entra) – Sì, Miss.

 

CLARA – Che fulmine! Dì un po’, stavi origliando?

 

DOTTY (inorridita) – No, Miss! Io… io…

 

CLARA – Fa’ lo stesso, senti qua: cosa te ne pare di Buddy Rogers?

 

DOTTY (con un gran sorriso) – È carino.

 

CLARA – E Dick Arlen?

 

DOTTY (avvampa) – Oh, Miss, è così bello, Mr. Arlen!

 

CLARA (a Wellman) – Che ti avevo detto? Certi uomini ti fanno sorridere e certi altri ti mandano il sangue alla testa. E in altri posti. – (a Dotty, maliziosa) – E di Mr. Wellman, Dotty, che cosa ti pare?

 

DOTTY (sprofonda nella più completa e balbettante confusione) – Ma Miss! Io… ossignore, Miss!

 

WELLMAN – Ci manca solo questa! Fila via, Dotty. – (Dotty corre via in un convulso di risatine) – Dio ci salvi dalla tipica ragazza americana. Dove l’hai pescata, Clara?

 

CLARA – Che ne so? Beulah ha deciso che mi serviva una cameriera come si deve, e un giorno me la sono trovata qui.

 

WELLMAN – Lascia fare a Beulah, tu! Però non raccontarla a tutto il set, questa storia, vuoi?

 

CLARA – E perché? Sai che risate si fanno tutti?

 

WELLMAN – Anche Dick e Buddy? Forse non te ne sei accorta, ma non è che vadano proprio d’accordo, quei due.

 

CLARA – Ma non mi dire! Con due ragazzi in un film, e tutti e due protagonisti, che cosa ti aspettavi? Ci sarebbe da preoccuparsi se non si odiassero a morte: quello non sarebbe sano!

 

WELLMAN – Può darsi. Però parliamoci chiaro: niente benzina sul fuoco, eh?

 

CLARA (con un gran sorriso e il principio di un’idea) – Senti senti…

 

WELLMAN – A film finito, sei padrona di fare quello che ti pare, ma a film finito. Questa produzione è già un massacro così com’è: ci manca solo che quei due si scannino per i tuoi begli occhi.

 

CLARA (innocente) – Oh. Dici che potrebbero?

 

WELLMAN – Se vuoi che creda che non ci avevi pensato, sei fuori strada, bambina. A te non ha niente da insegnare il diavolo in persona.

 

(Entra Beulah con bicchieri, ghiaccio e whisky su un vassoio)

 

BEULAH (con uno sguardo eloquente a Clara) – Whisky, Miss Clara.

 

CLARA – Grazie, Beulah, ma Mr. Wellman non se lo merita, il whisky. Non è mica venuto a trovarmi per il mio bel sorriso, sai? È venuto perché ha paura che faccia litigare Dick e Buddy.

 

BEULAH (con virtuosa indignazione) – Mr. Wellman! Sta cercando di dire che Miss Clara non è una brava ragazza?

 

WELLMAN – Sto cercando di dire, Beulah, che Miss Clara ha solo da entrare in una stanza perché tutti i maschi presenti sentano un’improvvisa primavera dei lombi. E che io ho i due giovanotti perfetti per la parte, là fuori, e farli scritturare è stata una faticaccia. E non sarò contento se cominciano a comportarsi come due galli cedroni in amore perché Miss Clara ha battuto le ciglia a uno o all’altro, o a tutti e due.

 

BEULAH – E che colpa ha Miss Clara se quelle due mezze calzette…

 

CLARA – Sta’ buona, Beulah. Mr. Wellman ha ragione: la sua carriera dipende tanto da questo film, e io posso rovinare tutto, se non sto attenta. Vero, Bill?

 

WELLMAN (comincia ad avere la sensazione di essere caduto in trappola) – Non esageriamo, adesso. È solo…

 

CLARA (cinguetta) – È solo che Bill sa di potersi fidare di me, Beulah. Sono venuta su a Brooklyn, io. E là non vieni su per niente, se non impari a tenere gli uomini a posto. Non preoccuparti, Bill: a Dick e Buddy posso far fare quello che voglio. Me li rigiro attorno al mignolo.

 

WELLMAN – Sono più preoccupato che mai, tesoro.

 

(Beulah si schiarisce significativamente la voce)

 

CLARA – Ma no,vedrai: io sarò un angelo, tutti saranno molto felici e questo cast sarà come una grande famiglia.

 

WELLMAN – Favoloso. – (si alza) – E, tanto per sapere, che vuoi in cambio, Clara?

 

CLARA (ride, sinceramente deliziata e lo prende sottobraccio) – Credevo che non lo chiedessi più! Ma niente di che, sai. Giusto una staccionata.

 

(Beulah fa frenetici cenni di no)

 

WELLMAN (sobbalza) – Una…

 

CLARA (pilotandolo verso la porta) – Una staccionata, una spalliera, una… come si chiamano quelle cose da giardino? Come quelle per le rose rampicanti, però senza le rose. Sta’ a sentire… – (escono a sn.)

 

BEULAH – Oh, santa Brigida e santi tutti dell’Irlanda verde! – (si siede sconsolata e si versa una generosa dose di whisky) – Io le tiro il collo! – (Dotty fa capolino da dx)

 

CLARA (rientra a passo di danza) – E chi è che domani arriva scavalcando una staccionata?

 

DOTTY – Oh, Miss, ce l’ha fatta!

 

BEULAH – Ce l’ha fatta un accidente! Si può sapere che cosa ti è saltato in testa?

 

CLARA (le prende di mano il bicchiere e sorseggia) – Come sarebbe? Ha detto di sì.

 

BEULAH – Ma avrebbe detto di sì a qualsiasi cosa! Non vedi com’è preoccupato per quei due galletti? Questa è un’arma, dovevi tenerla da parte per qualcosa di grosso, non buttarla via così. Le gambe te le faceva mostrare comunque!

 

CLARA – Cavolate! Ho avuto quello che volevo o no? Lui mica lo sa che mi vedo già con Dick, con Buddy e altri tre o quattro, e nessuno sa degli altri!

 

BEULAH –Tu proprio non sai giocare le tue carte! Mi fai venir voglia di sculacciarti, e bada che lo farò, quando vorrai qualcosa per davvero, e verrai a piangere da me.

 

CLARA (la abbraccia ridendo e la trascina in un passo di danza) – Neanche per idea, brutta bestiaccia! Quando vorrò qualcosa per davvero, mi darò da fare per averla, altro che piangere! Dotty, va’ a prepararmi il vestito blu. Anzi, quello argento.

 

BEULAH – Dotty, non muoverti! Dove credi di andare, vestita d’argento?

 

CLARA – Dove vuoi che vada? A cena e a ballare!

 

BEULAH – Tu sei tanto bella, Pasticcino, ma se hai del sale in quella testolina, è tutto andato a male. Domattina girate presto!

 

CLARA – Oh, piantala di brontolare! Vediamo un po’… – (prende il cappellino, chiude gli occhi e lo lancia in aria) – È caduto su un mazzo, Dotty?

 

DOTTY – Sì, Miss. – (corre a prendere il biglietto dal mazzo fortunato e lo porta a Clara)

 

BEULAH – E domattina sul set avrai gli occhi tutti pesti!

 

CLARA – A domattina ci penserò domattina. – (legge il biglietto e scoppia a ridere) – Carissima Sputafuoco, ti andrebbe di venire a cena con me? Tuo Gary Cooper.

 

DOTTY (delusa) – Gary Cooper? E chi è?

 

CLARA – Uno da sangue alla testa, Dotty, fidati.

 

BEULAH – Cooper? Quello che faceva lo stuntman? Oh santa… Che cosa dirà Mr. Wellman?

 

CLARA – Mica lo deve sapere. E se anche, può essere contento che non esco né con Dick né con Buddy – per stasera. Vieni, Dotty: lamé d’argento. – (a Beulah) – E comunque, se lo vuoi sapere, Bill ha detto che io non ho bisogno di Ali, che ho già tutto quello che serve.

 

BEULAH – Che serve per cosa?

 

CLARA – Per prendere il volo, cacchio!

 

(Esce ridendo)

 

 

Chiara Prezzavento

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Da “Clara” – Quadro I: “Ali” [2 parte] – Chiara Prezzavento

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CLARA – Sta’ zitta, Dotty! All’improvviso, vedo Jack sotto la macchina. – (rivolta a una cinepresa immaginaria, solleva le mani in un gesto di sorpresa e s’illumina in viso) – Jack! Poi corro verso la macchina e mi ci appoggio per parlare con lui che è sotto. Così. – (si appoggia al tavolino con entrambe le mani, col posteriore tanto in aria quanto si può) – Così. – (Si dondola di qua e di là) – E così! – (solleva una gamba all’indietro) – Meglio?

 

BEULAH – Didietro bello in vista, gambe neanche l’ombra. Come avere addosso una campana.

 

CLARA (con un’esclamazione di disgusto si lascia cadere a sedere sul tavolino) – E il resto della scena è anche peggio! Vieni fuori di lì, Dotty.

 

DOTTY (emerge da sotto il tavolino) – È almeno una scena con un bacio, Miss?

 

CLARA – Macché! Sta’ sicura che in Ali, di baci ne vedo pochini. Tutto aerei, guerra, battaglie, e un uomo che sembra un ragazzino del liceo.

 

DOTTY – È così carino Mr. Rogers!

 

CLARA – Sì, Buon-Ragazzo-Buddy-Rogers! Mi fosse capitato Bel-Ragazzo-Dick-Arlen, almeno. – (Dotty dà in un gran sospiro sognante) – Oh, perché ho accettato questa parte, Beulah?

 

BEULAH – Perché ti danno tanti soldini, Pasticcino. E perché è di quei film che la gente si fa quattro isolati di fila per vederli.

 

CLARA – BÈ, non è di quei film che faccio io. Io sono La Ragazza Wow, non una verginella che guida le ambulanze! Vero, Dotty?

 

DOTTY (prende il coraggio a quattro mani) – Per me, lei è tutto quello che vuole, Miss. Anche la ragazza della porta accanto, perché no? Una stella come lei sa fare tutto.

 

CLARA (scoppia a ridere) – Oh Dio, devo proprio darti un aumento, Dotty! Sei meglio del gas del dentista per tirare su una poveretta. Scommetto che… – (si ferma, colpita da un pensiero) – Che cos’hai detto?

 

DOTTY – Che cosa ho detto?

 

CLARA – La ragazza della porta accanto!

 

DOTTY – Sì, è perché…

 

CLARA – Che arriva dal giardino accanto! Vieni qui, e anche tu Beulah. – (prende una sedia e la trascina dietro il divano) – Tenete fermo questo affare, non voglio rompermi una gamba. – (Beulah si siede su un bracciolo del divano, Dotty si appoggia con tutto il suo peso sull’altro) – Io sono in giardino e sento martellare. Allora corro alla staccionata, guardo di qua… – (sale in ginocchio sulla sedia e ripete la scena di sorpresa e letizia) – Jack! E mi arrampico… – (si arrampica sullo schienale del divano mostrando una generosa porzione di gambe) – E cosa vedete?

 

DOTTY e BEULAH – Gambe! 

 

CLARA (scivola a sedere sul divano) – E che ci voleva? Solo che me lo lascino fare…

 

BEULAH – Certo che te lo lasciano fare! Sei tu la stella del film, e se tu vuoi qualcosa te lo devono dare di corsa.

 

CLARA – Sì, come no?

 

BEULAH – Tu non sai farti valere, Pasticcino. Tu non sai quello che ti è dovuto. Io lo dico sempre: se non ci fossi io a badare a te…

 

(Si bussa alla porta)

 

CLARA – Oh, cacchio! Vieni, Beulah, aiutami a cambiarmi. Apri, Dotty. – (fa per scappare attraverso l’arco) – Scarpe! – (recupera le scarpe da sotto mobili diversi e scompare).

 

(Dotty va ad aprire la porta e fa entrare William Wellman, il regista di Ali, fresco da una giornataccia sul set. Wellman è un brusco giovanotto sulla trentina, con una testa disordinata di ricci scuri, vestito come si vestivano i cineasti del tempo: giacca e pullover sopra pantaloni e stivali da equitazione)

 

DOTTY – Buonasera, Mr. Wellman.

 

WELLMAN – Ciao, Dotty. Lo vuoi un buon consiglio? Se ti venisse mai voglia di fare la regista, piuttosto buttati dal sesto piano.

 

DOTTY – Sì, Mr. Wellman. Si accomodi, Mr. Wellman. – (con l’aria di chi si sforza di ricordare qualcosa) – Vuole attendere? Sento se Miss Bow è in casa. – (esce)

 

WELLMAN (le grida dietro) – Quella va bene per il telefono, Dotty, non quando la gente è già piantata in salotto. –  (scuote la testa, si siede sul divano e contempla con aria disgustata l’abbondanza di fiori. Quando nota il cappellino di Clara nel cesto, lo pesca con due dita e lo lascia cadere sul tavolino) – Andiamo bene!

 

CLARA (entra con aria felina) – Ehi, Bill!

 

WELLMAN – Ehi, Clara.

 

CLARA – Insegni le smorfie alla mia cameriera?

 

WELLMAN – Non capisce granché, ma almeno dà ascolto. Meglio di tante attrici che conosco.

 

CLARA – Ha ha. Perché non la prendi al mio posto? Più brava-ragazza di così si muore.

 

WELLMAN – Non tentarmi, Clara. Magari lei non cava gli occhi ai fotografi.

 

CLARA – È venuto a piangere da te? Brutto cretino!

 

WELLMAN – Non c’era bisogno, tesoro: strillavi talmente forte che ti sentivamo dal campo aereo. Lo vedi perché preferisco lavorare con gli uomini? I ragazzi non hanno fatto tante storie, loro.

 

CLARA – Buoni, quelli! Il primo che passa dice “sorridete” e loro si slogano la mascella!

 

WELLMAN – Sì, è una qualità che rende più facile la vita del regista.

 

CLARA – Cavolate! Va tutto benone se quello che dà gli ordini sa il suo mestiere, ma cosa fai quando arriva un deficiente? Lo devi sentire tu quello che va e quello che non va, sennò sei solo una scimmia ammaestrata.

 

WELLMAN – Ah sì? E tu cosa ne sai?

 

CLARA – Un bel niente, e non faccio neanche finta. Però certe cose le sento dentro, e ti dico che la foto fa schifo, perché è andata a finire che non siamo né i personaggi né gli attori, non è una scena del film e non siamo noi tre sul set. È una schifezza e basta.

 

WELLMAN – E a te non è saltato per la testa di sorridere, vero? Voglio dire, visto che gli altri sorridevano, visto che non era in carattere, almeno poteva essere buona pubblicità, invece di una schifezza.

 

CLARA – E allora, perché ci hanno fatto mettere in costume? E in posa così? Quello era Mary-Jack-e-David. Se volevano Clara-Buddy-e-Dick, dovevano metterci a un tavolino con i copioni e il caffè e…

 

WELLMAN (si prende la testa tra le mani) – Signore, dammi la pazienza. Vuoi il mio posto, Clara? Vuoi dirigerla tu, questa gabbia di matti, per duecento dollari la settimana? Vuoi decidere le foto, mangiarti il fegato, tenere buono l’Esercito, tenere buona l’Aviazione, spremere un centesimo dopo l’altro dai produttori e magari, se trovi il tempo, girare anche il film?

 

CLARA (ride) – Scampi e liberi!

 

WELLMAN – Ecco. E allora fai la brava ragazza, fai quello che ti si dice e non crearmi più guai di quelli che ho già.

 

CLARA – Sta’ a vedere che sono io che ti metto in croce, adesso! Solo perché ne ho dette quattro a un fotografo cretino?

 

WELLMAN – No, Clara, non per quello. Però, vedi, se evitassi di lamentarti di Rogers con quelle galline di truccatrici e parrucchiere…

 

CLARA – Non mi sono lamentata! È che Buddy è tanto caro, ma girare le scene d’amore con lui… cacchio, mi sembra di far la corte al mio cuginetto! Per dire, Dick è già tutta un’altra faccenda. Dick lo vedi subito che è un uomo.

 

[continua…]

 

 

Chiara Prezzavento

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Da “Clara” – Quadro I: “Ali” [1 parte] – Chiara Prezzavento

Da Clara – Quadro I: “Ali”

 

Settembre 1926. Salotto di una suite del St. Anthony Hotel, a San Antonio – Texas. A sinistra un passaggio verso l’ingresso, a destra un arco decorato conduce al resto dell’appartamento. Tavolini habillé, divani di cuoio nero, e gran tendaggi cercano di combinare uno stile spagnoleggiante ai dettami dell’ultima moda in fatto di lusso, con risultati discutibili. Il profluvio di mazzi, cesti e ciotole di fiori disposti su tutte le superfici piane (compreso il pavimento) non fa nulla per alleviare un certo qual senso di sovraffollamento.

 

Si bussa furiosamente alla porta di sn. Una giovanissima cameriera in uniforme schizza attraverso la scena, cercando di assestarsi la crestina bianca sulla testa, ed esce a sn per aprire la porta. Un istante più tardi rientra inseguendo Clara Bow che irrompe tempestosamente in scena. A ventidue anni, Clara è un piccolo fuoco d’artificio dagli enormi occhi castani e furibondi, e dalle labbra molto truccate.

 

CLARA – E che cacchio, Dotty!

 

DOTTY (pigola, ad occhi sgranati e adoranti) – Scusi Miss Bow. Buonasera, Miss Bow. Stavo…

 

CLARA (si strappa lo spolverino e lo caccia con malagrazia in mano a Dotty) – Sorridi, Clara! – (calcia via una scarpa) – Che ci vuole, Clara! – (via la seconda scarpa) – Fai uno sforzettino, Clara: su gli angoli della bocca! – (si leva il cappellino, rivelando un caschetto di capelli rosso fiamma, e lo scaraventa in un cesto di fiori) – Deficiente! – (Si getta a sedere sul divano. L’occhio le cade sulla semi-atterrita Dotty e si raddolcisce appena) – Mica tu, Dotty. Non farmi quegli occhioni da vitello.

 

DOTTY – Sì, Miss Bow. No, Miss Bow.

 

(Non vista, una donna di mezza età dall’aria matronale e placida si affaccia da dx, con degli abiti sul braccio e un nastro da sarta al collo. È Beulah, sarta/governante/cane da guardia di Clara)

 

CLARA – E che cacchio! Miss Bow, Miss Bow, Miss Bow… ti viene mal di pancia a chiamarmi Clara?

 

BEULAH – Guai a te se ti ci pesco, Dotty! – (a Clara) – Con chi ce l’hai, stavolta, Pasticcino?

 

CLARA – Beulah, dici che lo posso ammazzare, un fotografo?

 

BEULAH (scrolla una spalla) – Tutta pubblicità. Già mi vedo i titoloni: “Stella del cinema spara a fotografo sul set.” È di un giornale importante, almeno?

 

CLARA (ride suo malgrado) – Macché giornale! Un cretino della produzione, per le foto pubblicitarie, sai. Viene, ci fa mettere in ghingheri, uniformi e tutto, e poi ci piazza lì: Buddy di qua, Dick di là, e io in mezzo. E poi, “sorridete!”, fa. E quei due scimuniti sorridono come… come… ah! A loro due, dovevo sparare!

 

BEULAH – E che male c’è? Sorridevo anch’io, al posto loro! Due signor nessuno che fanno un film con Clara Bow!

 

CLARA – C’è che è tutto sbagliato! Che razza di foto è, con me che faccio Mary Preston e loro tutti Dick-e-Buddy-che-fanno-un-film? Gliel’ho detto, e anche al fotografo, ma niente da fare! Sorridi, Clara, non è difficile!

 

BEULAH – Non prendertela, Pasticcino, tanto in foto sei sempre uno schianto. – (viene ad appoggiare sul divano una gonna a quadri e una camicetta.)

 

CLARA – Hm. Fortuna che ci sei tu, Beulah. – (occhieggia dubbiosamente gli abiti) – È roba mia, quella?

 

BEULAH – Per la scena che girate domani. L’ho fatta mandare su dalla sartoria, perché quelle ragazze dei costumi non hanno idea, ma mi sa che qui c’è poco da fare. –  (Clara fa una smorfia) – Prova un po’.

 

CLARA (comincia a svestirsi, aiutata da Dotty) – Fatti mandare su anche l’uniforme, già che ci sei. Facci qualcosa. – (rimasta in sottoveste, si contempla la vita con le mani sui fianchi) – Ci voglio una cintura, bella strizzata qui. E non m’importa un fico secco se le ausiliarie non la portavano.

 

BEULAH – Peggio per le ausiliarie, Pasticcino. Lascia fare a me. Su le braccia… – (Clara esegue, e Beulah le infila la camicetta) – Prendi lo specchio, Dotty.

 

DOTTY (timidamente, avvicinando un grosso specchio a figura intera) – Ha visto i fiori, Miss? Cinque mazzi e due cesti, oggi.

 

CLARA (mentre Beulah le infila la gonna da sopra la testa) – Fammi indovinare: Dick, Buddy, Coop, Scribacchino Saunders, l’ufficiale pilota dell’Ohio, Charlie dell’altro film… – (si vede nello specchio) – Oh!

 

DOTTY (adorante) – Com’è bella, Miss!

 

CLARA (scuote rabbiosamente la gonna, un arnese ampio e lungo fino a metà polpaccio) – Cacchio, Dotty, ma non ce li hai gli occhi? Sembro mia nonna!

 

BEULAH – Sembri una scolaretta, ma non vuol mica dire che non puoi mostrare un po’ di gambe.

 

CLARA – E come no? Mentre saltello come un capriolo intorno a quell’automobile? Aspetta. – (afferra Dotty per un braccio e la trascina verso il tavolino da caffè) – Dotty, infilati là sotto e fai Buddy.

 

DOTTY – Io? Io faccio Mr. Rogers? Ma Miss…

 

CLARA – Fingi di riparare la macchina, mettitici sotto. – (Dotty esegue goffamente) – Sotto, pastafrolla! – (indietreggia fino all’arco)

 

DOTTY (sotto il tavolino) – La crestina…

 

CLARA – Io arrivo, – (si avvicina saltellando e facendo danzare la gonna) – Si vede qualcosa, Beulah?

 

BEULAH – Giusto un po’ di polpaccio. 

 

CLARA – Sta’ a vedere, allora. Mi guardo in giro… – (si pianta a gambe larghe e mani sui fianchi, e si gira a destra e sinistra con abbastanza energia da sollevare l’orlo della gonna) – Adesso?

 

BEULAH – Niente.

 

DOTTY (sotto il tavolino) – Mi si stropiccia tutta l’uniforme, Miss…

 

[continua…]

 

 

Chiara Prezzavento

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Da “Gli Stendardi del Re” – Chiara Prezzavento

Da “Gli Stendardi del Re”

 

Il giorno di Pasqua del 1814 non ci fu chiesa di Francia in cui non si cantasse il Te Deum per l’abdicazione di Bonaparte e il prossimo ritorno del Re.

A metà mattina, proprio mentre il fratello minore del sovrano entrava nella capitale liberata, Aurore Viau se ne stava irresoluta, la destra sulla maniglia, la sinistra a tormentare la spilla che le fermava il fichu, davanti alla porta di quella che era stata la cappella del castello della Rivenoire, poco lontano dal villaggio di Matignaud-sur-Evre.

A rigor di termini, Aurore Viau era la castellana. Lo era da quando suo marito, più di vent’anni prima, aveva comperato i beni sequestrati ai rovinati e proscritti signori d’Aubray, e quindi non c’era davvero ragione per cui Aurore dovesse sentirsi tanto a disagio per via della cappella.

Tuttavia esitava in preda ad un’estrema agitazione e, quando si decise ad abbassare la maniglia e spingere l’anta di rovere, il cigolio dei cardini la fece sussultare. Scostò la porta appena quanto bastava per introdurre la testa tra i battenti e gettare un’occhiata timorosa alle pareti sbiancate a calce e alle assi inchiodate a chiudere le finestre ogivali, dalle cui fessure la luce del sole filtrava in radi raggi obliqui, poi si ritirò affrettandosi a richiudere e si allontanò con le narici ancor piene dell’odor di polvere e di freddo.

Aurore Viau temeva che suo marito si sarebbe inquietato se l’avesse sorpresa a sospirare perché non poteva avere un Te Deum nella cappella, e tuttavia le pareva ingiusto dovervi rinunciare. Era pur vero che i d’Aubray erano sempre scesi alla chiesa del villaggio, nei giorni di Pasqua, per assistere a tutte le messe del triduo con la loro gente, ma ad Aurore pareva che una funzione privata sarebbe stata più consona alla sua dignità di castellana. Prima di sposarsi era stata Aurore Vignolles, orfana di un fittavolo del conte morto nel Novantatre, l’unica superstite, assieme ad una sorella più piccola, di sei fratelli massacrati dai Blu, ingombrata di una madre cui il dolore aveva sconvolto la mente. Era stata tanto povera da vivere della carità dei d’Aubray, specie della vecchia contessa fino a quando Pascal Viau, venuto da fuori in cerca di terre nazionalizzate da comprare per poco, l’aveva trovata insieme alla madre demente nella casetta rovinata che era stata dei giardinieri, e l’aveva sposata. Allora Aurore era passata nella casa padronale rimessa a nuovo, aveva avuto abiti di seta e una cameriera, che però era dovuta venire da via: nessuna ragazza del villaggio e dei dintorni si era voluta impiegare a servizio sotto la figlia della vedova Vignolles, che usurpava la casa dei d’Aubray, di cui aveva mangiato il pane quando essi stessi avevano ben poco per sé. La nuova signora Viau, infagottata di trine che mal nascondevano la sua magrezza d’affamata, ne aveva tratto un’astio irragionevole verso i d’Aubray, la cui lunga generosità le appariva ora come un torto, quasi ancor più che verso la gente di Matignaud da cui, per vent’anni, non le era mai parso di fare abbastanza per distinguersi.

Per tutte queste ragioni, e perché il Re tornava, e anche perché prima di conoscere morte e disgrazia e paura era stata la pia figliola di brava gente pia, il giorno di Pasqua del 1814 Aurore Viau si crucciava che la vecchia cappella non fosse stata toccata dalle ristrutturazioni volute dal marito, e che nessun cappellano potesse dirvi messa per lei e i suoi figli, e dibatteva tra sé se dovesse o meno scendere al villaggio in carrozza e, se sì, con quale abito e quale cappello dovesse comparirvi per meglio sottolineare la sua dignità.

Con la mente così impegnata, uscì sulla terrazza che dava sul giardino e si avvicinò a passo esitante ai grandi vasi di giunchiglie che la ornavano. Aveva appena cominciato a strappare distrattamente le foglie ingiallite dagli ultimi freddi quando si udì chiamare per nome. Aurore si volse di scatto, arrossendo e serrando la mano intorno alle foglie strappate, come se fosse stata colta in fallo. Pascal Viau, suo marito, veniva scuro in volto per il sentiero che saliva dai pascoli. Viau era lustro e pasciuto, ed era uomo da gloriarsi, nella conversazione, non tanto dei pascoli, che aveva ricavato disboscando il fianco della bassa collina, quanto di avere avuto quella redditizia idea che in due o tre secoli non era balenata ai suoi predecessori. Da giorni, tuttavia, era assai meno incline a gloriarsi di alcunché, al punto di apparire meno pasciuto e meno lustro del consueto. Giunto che fu sotto la terrazza, l’acquirente di beni nazionali apostrofò con malagrazia la moglie, domandandole che avesse mai da oziare in vestaglia come una duchessa a quell’ora del mattino. La signora Viau non era di quelli che non sanno mentire: troppa povertà e troppa paura le avevano insegnato l’arte, ed essendo una donna sciocca ella se ne serviva non solo senza scrupolo, ma senza giudizio e, talora, senza ragione. Tuttavia, se non esitava ad attribuire alle domestiche la colpa delle sue sbadataggini o delle sue golosità, di celare i propri pensieri Aurore non era capace, e meno di tutto davanti al marito. Una parola brusca e la coscienza di avere intrattenuto pensieri sconvenienti bastarono a toglierle qualsiasi capacità d’architettare una menzogna: benché un istinto le impedisse di far parola della visita alla cappella, la donna non seppe far altro che balbettare qualche confusa ammissione di avere pensato al Te Deum nella chiesa del villaggio, mentre il colorito di Viau si faceva prima paonazzo e poi livido.

“Voglio proprio vedere,” esplose l’uomo. “Voglio vedere come canterai tedeum quando il re sarà tornato e ci caverà terre e casa dalle mani! E per allora potremo chiamarci contenti se avremo ancora qualcosa da farci togliere, stupida che sei! Credi che questi bifolchi ci penseranno due volte a strapparti di dosso le tue perle, appena ti vedono al villaggio? O che ci difenderanno se d’Aubray viene a riprendersi la casa di suo padre con una banda di briganti con le falci?” E, battuto un pugno formidabile sulla base di pietra della terrazza, Viau girò sui tacchi e si allontanò a gran passi, lasciando la moglie in uno stato che all’umiliazione univa un nuovo terrore.

Nemmeno per un istante, prima di quel rabbuffo, Aurore aveva considerato il ritorno del Re come qualcos’altro che il ritorno ad un più naturale ordine del mondo. Ora d’improvviso, irrigidita con una mano sulla balaustra e le foglie secche che le frusciavano tra le dita contratte e il palmo, la donna considerava la propria posizione di moglie di un odiato acquirente di beni nazionali, e si rivedeva col pensiero Aurore Vignolles, povera e disprezzata e priva di protezione. Atterrita, gettò uno sguardo oltre il giardino, lungo il viale alberato che saliva dal villaggio, come se il giovane d’Aubray dovesse apparire da un momento all’altro, seguito da un’orda di contadini ansiosi di rivalsa e forse di sangue.

Quando i rintocchi a festa della campana di Matignaud squillarono chiari nel vento, Aurore rabbrividì a lungo al ricordo del vecchio richiamo di guerra, e rientrò di corsa nel castello, sprangandosi la porta alle spalle.

E, benché si fosse appena a metà mattina, le domestiche del castello si stupirono dell’ordine improvviso di chiudere tutte le finestre e di sbarrare le porte, quasi che si prospettasse tempesta.

 

 

 

Chiara Prezzavento

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