Da “Gli Stendardi del Re” – Chiara Prezzavento

Da “Gli Stendardi del Re”

 

Il giorno di Pasqua del 1814 non ci fu chiesa di Francia in cui non si cantasse il Te Deum per l’abdicazione di Bonaparte e il prossimo ritorno del Re.

A metà mattina, proprio mentre il fratello minore del sovrano entrava nella capitale liberata, Aurore Viau se ne stava irresoluta, la destra sulla maniglia, la sinistra a tormentare la spilla che le fermava il fichu, davanti alla porta di quella che era stata la cappella del castello della Rivenoire, poco lontano dal villaggio di Matignaud-sur-Evre.

A rigor di termini, Aurore Viau era la castellana. Lo era da quando suo marito, più di vent’anni prima, aveva comperato i beni sequestrati ai rovinati e proscritti signori d’Aubray, e quindi non c’era davvero ragione per cui Aurore dovesse sentirsi tanto a disagio per via della cappella.

Tuttavia esitava in preda ad un’estrema agitazione e, quando si decise ad abbassare la maniglia e spingere l’anta di rovere, il cigolio dei cardini la fece sussultare. Scostò la porta appena quanto bastava per introdurre la testa tra i battenti e gettare un’occhiata timorosa alle pareti sbiancate a calce e alle assi inchiodate a chiudere le finestre ogivali, dalle cui fessure la luce del sole filtrava in radi raggi obliqui, poi si ritirò affrettandosi a richiudere e si allontanò con le narici ancor piene dell’odor di polvere e di freddo.

Aurore Viau temeva che suo marito si sarebbe inquietato se l’avesse sorpresa a sospirare perché non poteva avere un Te Deum nella cappella, e tuttavia le pareva ingiusto dovervi rinunciare. Era pur vero che i d’Aubray erano sempre scesi alla chiesa del villaggio, nei giorni di Pasqua, per assistere a tutte le messe del triduo con la loro gente, ma ad Aurore pareva che una funzione privata sarebbe stata più consona alla sua dignità di castellana. Prima di sposarsi era stata Aurore Vignolles, orfana di un fittavolo del conte morto nel Novantatre, l’unica superstite, assieme ad una sorella più piccola, di sei fratelli massacrati dai Blu, ingombrata di una madre cui il dolore aveva sconvolto la mente. Era stata tanto povera da vivere della carità dei d’Aubray, specie della vecchia contessa fino a quando Pascal Viau, venuto da fuori in cerca di terre nazionalizzate da comprare per poco, l’aveva trovata insieme alla madre demente nella casetta rovinata che era stata dei giardinieri, e l’aveva sposata. Allora Aurore era passata nella casa padronale rimessa a nuovo, aveva avuto abiti di seta e una cameriera, che però era dovuta venire da via: nessuna ragazza del villaggio e dei dintorni si era voluta impiegare a servizio sotto la figlia della vedova Vignolles, che usurpava la casa dei d’Aubray, di cui aveva mangiato il pane quando essi stessi avevano ben poco per sé. La nuova signora Viau, infagottata di trine che mal nascondevano la sua magrezza d’affamata, ne aveva tratto un’astio irragionevole verso i d’Aubray, la cui lunga generosità le appariva ora come un torto, quasi ancor più che verso la gente di Matignaud da cui, per vent’anni, non le era mai parso di fare abbastanza per distinguersi.

Per tutte queste ragioni, e perché il Re tornava, e anche perché prima di conoscere morte e disgrazia e paura era stata la pia figliola di brava gente pia, il giorno di Pasqua del 1814 Aurore Viau si crucciava che la vecchia cappella non fosse stata toccata dalle ristrutturazioni volute dal marito, e che nessun cappellano potesse dirvi messa per lei e i suoi figli, e dibatteva tra sé se dovesse o meno scendere al villaggio in carrozza e, se sì, con quale abito e quale cappello dovesse comparirvi per meglio sottolineare la sua dignità.

Con la mente così impegnata, uscì sulla terrazza che dava sul giardino e si avvicinò a passo esitante ai grandi vasi di giunchiglie che la ornavano. Aveva appena cominciato a strappare distrattamente le foglie ingiallite dagli ultimi freddi quando si udì chiamare per nome. Aurore si volse di scatto, arrossendo e serrando la mano intorno alle foglie strappate, come se fosse stata colta in fallo. Pascal Viau, suo marito, veniva scuro in volto per il sentiero che saliva dai pascoli. Viau era lustro e pasciuto, ed era uomo da gloriarsi, nella conversazione, non tanto dei pascoli, che aveva ricavato disboscando il fianco della bassa collina, quanto di avere avuto quella redditizia idea che in due o tre secoli non era balenata ai suoi predecessori. Da giorni, tuttavia, era assai meno incline a gloriarsi di alcunché, al punto di apparire meno pasciuto e meno lustro del consueto. Giunto che fu sotto la terrazza, l’acquirente di beni nazionali apostrofò con malagrazia la moglie, domandandole che avesse mai da oziare in vestaglia come una duchessa a quell’ora del mattino. La signora Viau non era di quelli che non sanno mentire: troppa povertà e troppa paura le avevano insegnato l’arte, ed essendo una donna sciocca ella se ne serviva non solo senza scrupolo, ma senza giudizio e, talora, senza ragione. Tuttavia, se non esitava ad attribuire alle domestiche la colpa delle sue sbadataggini o delle sue golosità, di celare i propri pensieri Aurore non era capace, e meno di tutto davanti al marito. Una parola brusca e la coscienza di avere intrattenuto pensieri sconvenienti bastarono a toglierle qualsiasi capacità d’architettare una menzogna: benché un istinto le impedisse di far parola della visita alla cappella, la donna non seppe far altro che balbettare qualche confusa ammissione di avere pensato al Te Deum nella chiesa del villaggio, mentre il colorito di Viau si faceva prima paonazzo e poi livido.

“Voglio proprio vedere,” esplose l’uomo. “Voglio vedere come canterai tedeum quando il re sarà tornato e ci caverà terre e casa dalle mani! E per allora potremo chiamarci contenti se avremo ancora qualcosa da farci togliere, stupida che sei! Credi che questi bifolchi ci penseranno due volte a strapparti di dosso le tue perle, appena ti vedono al villaggio? O che ci difenderanno se d’Aubray viene a riprendersi la casa di suo padre con una banda di briganti con le falci?” E, battuto un pugno formidabile sulla base di pietra della terrazza, Viau girò sui tacchi e si allontanò a gran passi, lasciando la moglie in uno stato che all’umiliazione univa un nuovo terrore.

Nemmeno per un istante, prima di quel rabbuffo, Aurore aveva considerato il ritorno del Re come qualcos’altro che il ritorno ad un più naturale ordine del mondo. Ora d’improvviso, irrigidita con una mano sulla balaustra e le foglie secche che le frusciavano tra le dita contratte e il palmo, la donna considerava la propria posizione di moglie di un odiato acquirente di beni nazionali, e si rivedeva col pensiero Aurore Vignolles, povera e disprezzata e priva di protezione. Atterrita, gettò uno sguardo oltre il giardino, lungo il viale alberato che saliva dal villaggio, come se il giovane d’Aubray dovesse apparire da un momento all’altro, seguito da un’orda di contadini ansiosi di rivalsa e forse di sangue.

Quando i rintocchi a festa della campana di Matignaud squillarono chiari nel vento, Aurore rabbrividì a lungo al ricordo del vecchio richiamo di guerra, e rientrò di corsa nel castello, sprangandosi la porta alle spalle.

E, benché si fosse appena a metà mattina, le domestiche del castello si stupirono dell’ordine improvviso di chiudere tutte le finestre e di sbarrare le porte, quasi che si prospettasse tempesta.

 

 

 

Chiara Prezzavento

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